Taormina. Scrittrice e giornalista, il Premio Nobel Svetlana Aleksievič ha innalzato la cronaca a racconto dell’anima di un popolo oppresso. Che significa narrare l’inenarrabile, come è avvenuto durante l’incontro, esaurito in ogni ordine di posti, organizzato da Taobuk il giorno successivo al conferimento dell’Award for Literary Excellence.
A dialogare con l’autrice di “Tempo secondo” è stata Viviana Mazza, autorevole firma del Corriere della Sera, che ha condotto la conversazione con sensibile consapevolezza e sapiente conoscenza dello scenario politico estero.
“Durante la guerra in Afghanistan – ricorda Aleksievič – vidi una madre che stringeva tra le braccia un bambino avvolto in una coperta. Donai a lei per lui un peluche e il piccolo lo afferrò tra i denti. La madre lesse lo stupore nei miei occhi e scoprì il figlio che non aveva né gambe né braccia, e mi disse: I tuoi russi gli hanno fatto questo. Ho capito allora perché i nostri soldati erano chiamati gli hitler sovietici. E promisi a me stessa che questa storia di quella madre e di quel figlio non sarebbe finita nel dimenticatoio. E la raccontai padre, un insegnante di campagna. Io dissi: Tu lo sai che siamo degli assassini?. E lui scoppiò in lacrime”.
Perciò, spiega, “I libri sulla verità sono necessari, perché ti aiutano a capire e a scegliere. Devo ammettere di essere cresciuta in una famiglia in cui mio padre era comunista e io mi liberai di quelle convinzioni proprio quando andai in Afghanistan e vidi come i nostri Katiuscia riducono in polvere interi villaggi”.
La missione di raccontare storie di guerra e democrazia negata comporta rinunce enormi ad allargare i propri orizzonti.
“Per una artista – Aleksievič ne è convinta – è pericoloso stare sulla barricata, perché dalla barricata non si vedono persone ma obiettivi. E io spero di potere finalmente dedicarmi a due libri che medito da tempi, uno sull’ amore, uno sulla morte. Mi mancano questi, i libri che non ho mai scritto, ma un imperativo morale mi ha impedito finora di distogliere tempo e fatica alla letteratura militante. Penso infatti che lo scrittore debba essere innanzitutto un uomo onesto, per cui, se il suo Paese vive una drammatica crisi, come accade da 25 anni in Bielorussia, deve denunciare e testimoniare i fatti”.
La voce di Svetlana Aleksievič è dolce e ferma, quella di chi si volta sempre due volte a guardare la casetta della donna con cui ha parlato tutta la notte, come le disse una delle intervistate incontrate nei villaggi del suo Paese, “perché guardare due volte significa far parlare l’altro dei misteri dell’ anima”.
Ma se lo spirito va svelato, la verità, sempre lei in cima a tutto, va urlata, come fanno i personaggi del prediletto Tolstoj. E parla ancora di guerra, Aleksievič, di cadaveri putrefatti, vite annientate ma anche natura violata, come emerge nelle migliaia di conversazioni raccolte dall’infaticabile cronista. A patire sono soprattutto donne. Perfino le soldatesse sovietiche per le quali più forte della paura della morte c’era la vergogna del corpo umiliato, sprovviste perfino di materiale assorbente per il sangue mestruale e costrette perciò a rubare le camicie dei soldati.
Parla di questo il racconto “La guerra non ha un volto di donna”, bloccato per tre anni dalla censura fino all’avvento di Gorbaciov. “Ma le donne – conclude – sono più forti degli uomini, più forti di tutto senza rinunciare alla propria natura e all’essenza. Le bielorusse, che per la libertà sono scese in piazza a migliaia, all’inizio vestivano di bianco e donavano fiori ai soldati. Volevamo una rivoluzione, pacifica, senza sangue. E lo speriamo ancora. Ma rispetto a 25 anni fa, oggi siamo meno ingenui. Troppo sangue è stato versato”.