Da Antonio Pitrelli, riceviamo e pubblichiamo: “Caro direttore, come ben saprai, quando qualche fatto (o misfatto) attira la mia attenzione, rientrando nella categoria dei liberi cittadini, mi sorgono istintive alcune considerazioni, che mi inducono, di conseguenza, a riflettere verso doverosi parallelismi, in tema di dubbi, verso l’attuale situazione del S. Vincenzo di Taormina, che ti chiedo di valutare con la tua consueta attenzione. Questione rogo al reparto di rianimazione per bambini dell’Ospedale Bambin Gesù di Roma. Come ben sai, mi occupo di attività di prevenzione a 360° e la notizia che è stata trasmessa (non essendo sul posto, ci si può basare solo su questo), inerente la pronta risposta all’emergenza da parte di diverse persone che hanno evitato un sicuro dramma ai piccoli ospiti (pare oltre un centinaio), mi pare riduttiva e priva di contorni. Se la macchina della prevenzione avesse funzionato a dovere, senza quindi basarsi sull’intervento provvidenziale di alcuni genitori e di altre figure presenti al momento del principio di incendio, ma su quello delle squadre di emergenza interne, di ciò se ne sarebbe dato ampissimo risalto, al fine di celebrare la perfezione del nucleo interno di primo intervento. Ma non è successo, e questo la dice lunga, soprattutto per il fatto che molte fra le persone che sono intervenute nell’immediatezza dell’evento inatteso (ma doverosamente prevedibile e preventivabile), sono rimaste intossicate dal fumo inspirato. Questo nucleo di primo intervento (previsto per Legge, e correttamente denominato Squadra d’emergenza), è, o dovrebbe essere, composto di persone che lavorano all’interno del nosocomio (sia capitolino che di qualsiasi altra parte), deve essere suddiviso su più turni di lavoro, contemplando la programmazione dell’intero anno solare, ed ivi comprendendo e preventivando la gestione delle sostituzioni di personale assente, dovuto alle possibili defezioni per ferie, malattie, assenze improvvise e non programmate, e così via. Deve essere perfettamente addestrato (ed equipaggiato) agli interventi più disparati e tamponare le eventuali situazioni di crisi, quali appunto principi di incendio, ed altro, in attesa di squadre di intervento dei Vigili del Fuoco e dell’Arpa e dello stesso Nucleo Ispettivo dei Tecnici della Prevenzione della Azienda Sanitaria. Nella fattispecie, i componenti delle squadre di emergenza interna, qualora la preparazione fosse stata fatta ad hoc, avrebbero dovuto intervenire sul posto già indossando i Dispositivi di Protezione Individuale (Dpi) idonei al caso (tuta antincendio, maschere antigas con autorespiratore, calzature di sicurezza, torce antideflagranti per illuminazione, ecc.) ed, essendo gestite da uno o più capi-squadra, consentire il duplice e contemporaneo intervento tampone con mezzi estinguenti contro le fiamme e di evacuazione dei piccoli degenti. Personalmente, se fossi stato a capo di una struttura simile e se le cose fossero andate realmente come ho solo potuto teorizzare, al termine della disdicevole vicenda mi sarei fatto vanto degli uomini ai miei comandi e del loro addestramento e ne avrei sicuramente esaltato la professionalità dimostrata, l’eccellenza di operato, il coraggio e via di questo passo. Tuttavia, i dubbi sono molti. Per forma mentis e per la tipologia dell’immenso settore interessato, quello della prevenzione, ho una visione molto integralista della materia, ossia che non concede spazi all’improvvisazione ed alla libera interpretazione od iniziativa, ma che confida nel proprio e nell’altrui operato che deve essere necessariamente basato sull’esperienza, sull’affiatamento del gruppo di lavoro e su una preparazione attenta ed estremamente meticolosa, quasi maniacale, della materia sicurezza e prevenzione, con l’ausilio di una forma di comunicazione non verbale, data dalla reciproca ed immediata comprensione con il collega di turno, attraverso il solo sguardo d’intesa sul da farsi e dalla coesione del gruppo, nonché dalla conoscenza specifica della mansione propria di ognuno di essi durante un qualsiasi intervento e ferma restando, comunque, l’assoluta intercambiabilità dei ruoli, dovuta proprio alla professionalità raggiunta. Questo, per quanto riguarda l’esempio del rogo di Roma. Il dubbio, lecitamente riportato sul nostro territorio, riguarda anche l’Ospedale di Taormina e la capacità di reazione delle squadre di emergenza in situazioni similari che auspico non debbano verificarsi mai, ma che per l’appunto non possono e non devono essere scartate a priori. Consideriamo il solo aspetto logistico. La differenza con Roma, è legata ai tempi di intervento dei Vigili del Fuoco. Nella fattispecie del Bambin Gesù, sono stati sufficienti (se così possiamo dire) sei minuti dall’allarme all’arrivo dei mezzi deputati allo spegnimento. Sinceramente, in questi casi, una eternità. Nel malaugurato caso di un intervento presso il S. Vincenzo, si dovrebbe tenere in considerazione il fatto (di non poco conto), che gli automezzi dei Vigili del Fuoco devono arrivare da Letojanni, percorrere la strada litoranea, sperare di non trovare ingorghi o code o intoppi di diversa natura sia sulla strada medesima che in corrispondenza delle localizzazioni dei grandi alberghi, dove è cognita la presenza dei pullman turistici, di quanti per buona abitudine parcheggiano in seconda fila (…tanto è un minuto….) e così via. Forse è proprio questo, il periodo dell’anno che dovrebbe poter consentire una veloce percorrenza della litoranea. Pertanto, per essere molto riduttivi, ci si deve augurare che, qualora dovesse succedere l’imprevedibile, questo accada in autunno inoltrato, con buona pace di chi continua a rimettere le proprie aspettative di prevenzione e sicurezza al solo fato. Non è così. Consideriamo, ora, al di là delle squadre di primo intervento, gli scenari che potenzialmente potrebbero vedere coinvolte le nostre figure professionali, che devono essere pronte ad intervenire in ogni situazione. Sono rappresentate casistiche di intervento praticamente infinite per tipologia di intervento, di luoghi, di attività produttive o di servizi, e di fattori di criticità da affrontare e, se possibile, da risolvere o per lo meno fermare nel suo incedere dannoso, lavorando in team, con notevole affiatamento, anche proteggendosi dai potenziali pericoli l’un l’altro. La questione di Roma si è risolta tutto sommato in modo soddisfacente, fortunatamente con notevole limitazione dei danni, sempre basando questa affermazione sulla scorta di quanto giunto a noi tramite le notizie diffuse, al di là delle circostanze concomitanti verificatesi. Chi, come il sottoscritto, ha ricevuto una proficua preparazione (in aula, sul territorio ed in fase di addestramento teorico alla prevenzione con prove pratiche di spegnimento incendi, ed all’intervento in situazioni ove sono presenti industrie e laboratori ad alto rischio, o verso interventi di contrasto al bioterrorismo, quali per esempio il rinvenimento di polvere ipoteticamente riconducibile a Carbonchio), attenziona sempre la materia ai massimi livelli, e non potrebbe essere diversamente. In ultima analisi, un pensiero, comunque, mi turba e dovrebbe far riflettere quanti hanno voce in capitolo. Quanti altri ospedali potrebbero vedere impegnate le proprie squadre di primo intervento? La risposta è banale ma fa riflettere. In via strettamente ipotetica, tutti. Ma soprattutto: qual è il reale grado di preparazione, sia pratica che soprattutto psicologica, dei componenti ed il loro grado di conoscenza dei rischi da affrontare? La prevenzione, nel senso pieno dell’accezione, verso la cui carenza gli interessati devono assumersi le proprie responsabilità di coscienza, unite a quelle civili e penali, non si può e non si deve basare sulle ipotesi o sulla speranza o sulla improvvisazione o sul proprio intimo convincimento che non accadrà mai nulla, ma sullo studio (di prevenzione, per l’appunto) effettuato oggi e sul continuo ed incessante monitoraggio, necessariamente espletato con cognizione di causa, dei luoghi, delle casistiche di criticità e degli effetti, di quello che potrebbe capitare domani. Roma docet”.